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  • PNRR, ALTRO CHE SUD PENALIZZATO. E LA CAMPANIA PRENDE PIÙ SOLDI DELLA LOMBARDIA

    Uno studio dell’ANCE, l’associazione dei costruttori, ha analizzato al microscopio le risorse già distribuite a Regioni e Comuni. Dei 108 miliardi per le infrastrutture ne restano ancora da assegnare 52, ma quello che emerge è che i vari piagnistei sentiti su un Sud penalizzato sono solo lacrime di coccodrillo. Infatti, questa macroarea ingloba il 43% delle risorse ricevute finora, il centro solo il 13% e il Nord il 42%. Quello che fa specie sono i primi posti in termini di valori assoluti. La Lombardia è la seconda con 6,044 miliardi e al primo posto, udite udite, la Campania con 7,364 miliardi di euro. E ancora, terzo è il Veneto seguito pari passo dalla Sicilia. Ora che ci sono tutte queste risorse e in queste regioni meridionali arrivano, sarebbe da chiedersi se saranno mai sazi di tutto questo fiume di denaro o se sono necessarie ancora quelle drenate ogni anno dal Nord. Fonti: RAPPORTO ANCE – IL SOLE 24 ORE

  • Il catasto e la sua riforma

    Ovvero: come il somaro lombardo sarà nuovamente chiamato a pagare per tutti quanti Comincia sempre così. Il modus operandi è rodato da tempo immemore: quando lo Stato si prepara a farla sporca, partono immediatamente rassicurazioni di ogni genere e tipo. Così, poco prima di quel pugno, ben assestato, capace di farti sputare mezza dentatura, arrivano le carezze e i grattini, che si concretizzano oggi in quel mantra: “non aumenteremo le tasse, fidati”. A questo giro però il rischio che si prospetta all’orizzonte è quello di una delle più grandi mazzate fiscali mai viste nella storia di questo sgangherato Paese. E quando c’è da pagare, neanche a dirlo, la Lombardia è sempre davanti (e dietro) a tutti quanti. La vergognosa manovra passa sotto la rassicurante dicitura di “integrazione delle informazioni presenti nel catasto”, ovvero la meglio nota Riforma del catasto. Immediatamente qualcuno si è affrettato a spiegarci come, fino al 2026, ovvero l’anno di completamento della riforma, non cambierà nulla. In testa al corteo strombazzante, ça va sans dire, i giornaloni blasonati e le reti unificate. Che sollievo dai, tutto rimandato al 2026, mancano ancora cinque anni dopotutto. Ma a scanso di voler essere un pochino guastafeste, forse varrebbe la pena domandarsi: cosa accadrà dopo? Procediamo per gradi. Per capire è bene spiegare, in modo semplificato, come funziona il catasto e quali cambiamenti porterà la riforma varata dal Consiglio dei Ministri. Il catasto è quel registro statale che contiene i dati volumetrici di tutti gli immobili presenti sul territorio italiano e ad ognuno di questi è legata una rendita, chiamata per l’appunto rendita o valore catastale. Per questioni storiche, che non è interessante approfondire in questa sede, se rapportata al prezzo di mercato questa rendita è notevolmente inferiore. Indicativamente oscilla tra il 40% e il 60% del valore di mercato. Per capirci, una casa che costa 170 mila euro potrebbe avere un valore catastale di 80 mila. La rendita catastale è importantissima perché costituisce la base imponibile per tutta una serie di tributi, tra cui l’IMU e l’imposta di registro del 2% sull’acquisto della prima casa. Posta questa premessa è arrivato il momento di spulciare la riforma per capire quale gramo destino attenda i contribuenti italiani e lombardi, come sempre, in primis. In buona sostanza l’ambizioso piano dell’Esecutivo Draghi, fortemente caldeggiato in quel di Bruxelles, prevede che entro il 2026 venga attribuita, accanto alla rendita determinata secondo la normativa vigente, una nuova rendita attualizzata e parametrata sui valori di mercato, oltre che il relativo valore patrimoniale, dati che saranno aggiornati periodicamente. Naturalmente lo stesso decreto contiene anche l’indicazione chiara e rassicurante: le nuove rendite, parametrate ai valori di mercato, non saranno utilizzate ai fini fiscali. Tutto risolto quindi? Assolutamente no. Avendo una discreta esperienza su come si comporta lo Stato con i suoi cittadini (leggi sudditi), ci sentiamo quantomeno in obbligo di farci una domanda: se questa nuova rendita sul valore di mercato non sarà utilizzata ai fini fiscali, allora a cosa serve esattamente? La domanda è naturalmente retorica e la motivazione ufficiale della riforma pare una dèrapage da antologia sugli specchi: una non meglio precisata “operazione trasparenza”, con lo scopo di far emergere gli immobili fantasma. Che detta così, francamente, fa ridere i polli. Non si capisce infatti come mai un immobile non dichiarato dovrebbe emergere nel momento in cui il Governo o i Comuni ne facciano richiesta, quando è molto più conveniente, se proprio, attendere l’immancabile condono che presto o tardi farà capolino dalla porta. Senza contare che questa spiegazione, comunque non risponde alla domanda circa l’uso delle rendite calcolate sui valori di mercato. Fugato quindi ogni dubbio sul fatto che, contrariamente a quanto crede il Governo, esistono ancora persone dotate di uno straccio di senso critico, tanto da ritenere palese come le nuove rendite, dal 2026, serviranno proprio per aumentare le tasse, è bene focalizzarsi su quali saranno i cittadini maggiormente colpiti una volta che il sistema sarà finalmente rodato e messo a punto. La risposta a questa domanda è di una banalità disarmante: tutti, nessuno escluso. Da una parte i bersagli diretti saranno ovviamente i proprietari del mattone. Ma dall’altra anche coloro che sono in affitto subiranno l’onda lunga, dato che i padroni di casa cercheranno di scaricare parte dell’aggravio sui loro locatari. Per non parlare di chi comprerà casa: per questi saranno dolori tremendi. Come dicevamo all’inizio, se si acquista un’abitazione tra privati l’imposta di registro è calcolata sul valore catastale odierno, nel caso della prima casa al 2%. Facendo un esempio concreto, se un cittadino paga un immobile 170 mila euro, con un valore catastale (odierno) a 80 mila euro, in questo momento deve sborsare 1600 euro di imposta di registro. Ma se la base imponibile fossero i nuovi parametri, adeguati ai prezzi di mercato, lo povera vittima in questione sarebbe costretta a sborsare ben 3400 euro. E analogo ragionamento andrebbe fatto per l’IMU, il cui importo sarebbe destinato a crescere di una misura variabile tra il 40% e il 60%. Ma c’è poi un altro fondamentale elemento, che ci riguarda da molto vicino. A subire maggiormente il colpo sarà la Lombardia, e in particolare gli abitanti dei capoluoghi, Milano in primis, dove il mattone già oggi lo si paga a peso d’oro. Se ancora una volta sarà usato il valore di mercato per parametrare le nuove imposte, viene da sé comprendere come i cittadini più martoriati saranno quelli che risiedono proprio in quelle città dove le case costano di più. Non serve snocciolare i dati regione per regione, o provincia per provincia, per poter capire quali saranno, ancora una volta, gli agnelli sacrificali di questa scellerata operazione. Un’operazione dilazionata negli anni, in là nel tempo, oltre il 2026, ben lontana dalla memoria sempre e comunque troppo corta degli italiani (e anche dei lombardi, sigh!), che probabilmente sarà affidata alle sapienti mani di qualche governo tecnico, rigorosamente non eletto, di qualche Draghi o Monti di turno, giunto dalle nebbie per salvarci tutti. Ancora una volta.

  • Autonomia differenziata, per il Governo Draghi è prioritaria

    🟩Autonomia differenziata, per il Governo Draghi è prioritaria🟩 Noi di “Associazione 29 Maggio” siamo andati a sbirciare la NADEF (Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2021) del Governo Draghi, e a pagina 12 abbiamo scoperto che il DDL per l’attuazione dell’autonomia differenziata è (addirittura!) il primo provvedimento da completare per la manovra di bilancio 2022-2024 di dicembre! Una decisione che ci piace e che seguiremo, come ogni notizia che possa riguardare l’autonomia della Lombardia, con molta attenzione… #autonomia #autonomiadifferenziata #nadef #Lombardia #LombardiaAutonoma #Draghi

  • Carlo Cattaneo, l'ideologo dell'autonomia lombarda

    Così Carlo Cattaneo divenne l'ideologo dell'autonomia - di Galli Stefano Bruno Tratto da Libero Quotidiano Milano di martedì 15 giugno 2021, pagina 33 Carlo Cattaneo, che nacque a Milano il 15 giugno di 220 anni fa, è il «padre nobile» della Lombardia. La storiografia l'ha sempre considerato il «vinto» del Risorgimento. Al contrario, è stato un lucidissimo pensatore, un grande lombardo e, nella sua apparente sconfitta, uno splendido vincitore. Intelligenza limpida, sensibile al razionalismo e all'enciclopedismo settecentesco, Cattaneo - liberale di origine borghese - affermò con forza il primato dell'homo faber. A suo giudizio la terra lombarda «per nove decimi non è opera della natura; è opera delle nostre mani». È frutto delle fatiche della gente lombarda. Nel 1848 svolse un ruolo da protagonista nelle Cinque giornate di Milano, che non era sede di un potere autonomo, non disponeva di apparati burocratici, amministrativi e fiscali, né tanto meno di un esercito. Non aveva voce nella determinazione dell'indirizzo politico e, dunque, non poteva guardare - con ottimismo e fiducia - al proprio futuro. Cattaneo cercò di coniugare l'indipendenza dallo straniero con la libertà politica. E mise in guardia il popolo lombardo dal pericolo connesso alla mera sostituzione della dominazione austriaca con quella dei Savoia. La Lombardia - che era la regione più sviluppata - doveva conquistare la propria libertà e rimanere autonoma, per porsi alla guida del processo di unificazione nazionale. Al posto del regno di Piemonte e Sardegna. Ineguagliato interprete e intelligente protagonista di questa ardente aspirazione autonomista, che era una scelta di civiltà e di libertà, Cattaneo visse dentro il clima culturale del proprio tempo, in senso anticonvenzionale e anticonformista. E fu l'espressione di una cultura politica liberal-democratica in senso radicale e repubblicano. Eletto in Parlamento, non giurò fedeltà alla monarchia. 11 suo modello di federalismo - che avrebbe consentito alla Lombardia di esercitare la propria leadership - richiedeva uno Stato diverso, repubblicano e democratico Si rese conto delle profonde aporie dell'Unità, auspicando una soluzione federale per l'organizzazione dei poteri e delle istituzioni della Penisola, che mettesse a sistema le diversità territoriali come risorsa per lo sviluppo. Solo un ordine politico federale - come quello svizzero o americano - fondato sulla libertà politica poteva infatti garantire la crescita economica e civile. Nel 1844, Carlo Cattaneo diede alle stampe le Notizie naturali e civili sulla Lombardia. Un testo che ancora oggi s'impone come la più precisa rappresentazione del territorio lombardo, della sua storia - dall'antichità sino al secolo decimonono - e dei suoi antichi abitatori. Una descrizione appassionata, in cui il teorico della cultura universale della scienza e della tecnica, fondatore - nel 1839 - del "Politecnico", dipinge un grande affresco della Lombardia, regione d'Italia «naturalmente e civilmente dalle altre distinta». Solo un ordine politico federale - come quello svizzero o americano - fondato sulla libertà politica poteva infatti garantire la crescita economica e civile LA MISSIONE CIVILE Nelle notizie, Cattaneo si lascia trasportare dal sentimento affettivo e s'affida alle emozioni, che trasudano da ogni pagina. È un testo che deve essere diffuso e letto. In particolare, dovrebbero leggerlo - come auspicava Gianfranco Miglio - i giovani, affinché comprendano lo «spirito» lombardo. C'è tutto Cattaneo nelle Notizie non solo perché il testo certifica quanto l'autore, senza rinchiudersi nella sua «torre d'avorio», credesse nel valore sociale della scienza e della conoscenza, nella missione civile del dotto. Emerge - sostenuta da un'inattesa forza poetica, che sorprende il lettore - il suo amore per la regione lombarda. La terra illustrata con tanto slancio sentimentale - mai eccessivo e neppure stucchevole - è una Lombardia «plurale». Le specificità di ogni territorio - che è una costruzione sociale - affiorano con chiarezza dalla geografia alla geologia, dalla meteorologia all'idrografia, dalla flora alla fauna, al vissuto civile delle comunità, con i loro modelli culturali e comportamentali, gli usi, i costumi, le abitudini. E molto «politica» la lettura cattaneana della Lombardia. Nei fatti, l'analisi che ci regala Cattaneo spiega il primato della nostra Regione, che si è imposta come un vero e proprio modello di civiltà. Una primula che alimenta una forte vocazione autonomista, ereditata dalle libertà politiche e commerciali, dalle tensioni etico-civili dell'età comunale. Cattaneo ci descrive una regione che si adagia su una pianura molto fertile e densamente popolata, ricca di acque e con un clima assai mite sino alla fascia pedemontana. Vi è poi la montagna, con i boschi, le valli e i torrenti. A questo territorio «mancava solo un popolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero». Fin dall'antichità, la Lombardia è riuscita a raccontarsi al mondo con una sua specifica immagine, quella di luogo privilegiato di produzione e innovazione, di scambi e commerci. E si configura come un grande «deposito di fatiche». p la «regione» di cui egli cerca di cogliere «una certa unità di concetto», oltre la dimensione municipale e provinciale, espressioni di «minute nazionalità». RADICI L'evoluzione della prosperità materiale e morale - cioè l'incivilimento di un territorio - non piove mai dal cielo. E il risultato dell'impegno individuale e della dedizione al lavoro, dello spirito di abnegazione, del senso del rischio imprenditoriale e dell'intelligenza produttiva che alberga nella mentalità collettiva e nelle tradizioni civiche della gente lombarda. Cattaneo lo scrive nelle ultime righe delle Notizie. Elenca i grandi successi del genio lombardo, dalle lettere alle arti, dalla filosofia alla matematica, dall'idraulica all'agricoltura. Afferma che «senza dirci migliori degli altri popoli», possiamo reggere il paragone con qualsiasi altro popolo. Aspettiamo tuttavia che «un'altra nazione ci mostri, se può, in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti fatiche». E conclude: è una «scortese e sleale asserzione» quella che attribuisce tutto «al favore della natura e all'amenità del cielo». Il territorio lombardo è bello e, nella regione dei laghi, «il più bello di tutti». Ciò perché «nessun popolo svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura». Un vero e proprio manifesto ideologico del più autentico spirito lombardo. Redazione 29 Maggio

  • Zitti e buoni

    Come la canzone dei Maneskin, purtroppo sono anche i lombardi “Napul è ‘a città cchiù bella ‘rò munn” Ma perché? Secondo quali statistiche? Quali dati? Quali straordinarie bellezze naturali o artistiche? Nessuna. O meglio, nulla di più o di meno di, diciamo, un altro migliaio o forse più di città nel globo. Tuttavia, se lo chiediamo ad un napoletano, non ci sono dubbi: Napoli è la città più bella del mondo. Indiscutibilmente. Senza appello. Non sentirete mai nessun partenopeo dire che la sua città non è la più bella che possa esistere. Parliamo di Napoli e vogliamo volutamente essere provocatori. Potremmo fare questo esempio con tantissime città del mondo, stando a sentire i loro cittadini. Di certo, tuttavia, non possiamo farlo per una città: Milano. E men che meno per la regione di cui è capoluogo, la Lombardia. Eppure, senza possibilità di essere smentiti, possiamo affermare che in Lombardia sono presenti 11 patrimoni dell’umanità dell’Unesco (in uno Stato, l’Italia, che detiene a livello mondiale il record di patrimoni dell’umanità) e che Milano sia la città più visitata a livello turistico nazionale. Che la Lombardia abbia un PIL da fare invidia a oltre la metà degli Stati dell’Unione Europea, che abbia accolto (e continui ad accogliere) migliaia di cittadini ogni anno, cui offre lavoro e possibilità di crescita economica. Che, grazie alla sua straordinaria forza economica, sia il centro gravitazionale dell’intero sistema-paese Italia. Che, ogni anno, migliaia e migliaia di investitori italiani e stranieri la scelgano come meta per affermare il proprio business o espanderlo. Inoltre è noto come sia la capitale incontrastata della moda a livello globale e non esista un solo stilista al mondo che non sogni di presentare la propria collezione su una passerella della Milano Fashion Week. Della Lombardia, terra di talenti straordinari, furono o sono Gaetano Donizetti, Alessandro Manzoni e Carlo Emilio Gadda, Caravaggio, Dino Risi, Marco Ferreri, Ermanno Olmi, Luchino Visconti, Alberto Lattuada, Enrico Mentana e Gianni Brera, Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Ugo Tognazzi, Gian Maria Volonté, Franca Valeri, Renato Pozzetto, Enzo Iacchetti, Sandra Mondaini, Eleonora Duse, Gerry Scotti, Mina, Celentano, Mogol, Gaber e Enzo Jannacci; Gianfranco Ferré, Miuccia Prada, Stefano Gabbana, Krizia, Valentino e Armani; Tazio Nuvolari, Gualtiero Marchesi, Gino Strada e Umberto Veronesi, Ambrogio Fogar; Bruno Munari, Gio Ponti, Luca Scacchetti, Marco Zanuso, Achille Castiglioni; Carla Fracci e Alessandra Ferri; Danilo Gallinari e Paolo Maldini. Abbiamo attinto qua e là dal mondo della musica, dello spettacolo, dell’arte e del teatro, della scienza, dell’architettura e dello sport. Degli imprenditori che hanno fatto la fortuna di milioni di lavoratori, generando ricchezza e benessere, non stiamo nemmeno ad iniziare l’elenco. Ah già, negli ultimi cento anni si sono avvicendati sulla cattedra di Pietro otto papi, cinque erano italiani e di loro tre venivano dalla Lombardia: Paolo VI (Concesio), Giovanni XXIII (Sotto il Monte) e Pio XI (Desio). Forse il più grande genio della storia dell’umanità, Leonardo, ha lasciato nel capoluogo lombardo una delle sue più grandi e straordinarie opere. Ma, nonostante tutto questo (e molto molto altro ancora) non sentirete mai, purtroppo, dire ad un milanese “Milano è la più bella città del mondo” e un lombardo essere orgogliosamente lombardo. Da sempre divisi in mille litigi e campanilismi, certamente caratteristici ma terribilmente lesivi della nostra identità. Ed è proprio qui il peccato originale di noi lombardi, di nascita o di adozione. Ed è forse questa la ragione per cui perdiamo sempre la battaglia. Non siam popolo. Non combattiamo per la nostra terra. E nemmeno la rispettiamo o la difendiamo come dovremmo dai sempre numerosi detrattori. Sempre zitti e buoni, o cornuti e mazziati, come direbbero ad altre latitudini. Noi ci siamo rotti i coglioni, è tempo di svegliarsi, lombardi! Fieri di quello che siamo. Orgogliosi di vivere nella terra più bella del mondo.

  • Alitalia, un pozzo senza fondo

    Nuovi decreti, stessi sprechi! A distanza di circa un anno torniamo con questo post sull’annosa questione dei sostegni economici alla compagnia aerea di bandiera. Come sicuramente ricorderete e come evidenziato da post precedenti con il Decreto “Cura Italia” di Marzo 2020 lo stato aveva costituito un fondo pari ad euro 500 milioni a sostegno di Alitalia - Società Aerea Italiana S.p.A. e di Alitalia Cityliner S.p.A per la costituzione di una new co e successivamente con il decreto “Rilancio” del Maggio 2020 il suddetto fondo era stato aumentato addirittura a 3 MILIARDI! Ma cari amici, non è finita qui, perché, sebbene sia cambiato il governo, continua questo spreco di risorse che potrebbero essere destinate per sostenere le imprese entrate in crisi per la pandemia. All’art. 24 del decreto legge “Sostegni bis” si legge che viene previsto l’incremento dei fondi a sostegno di Alitalia - Società Aerea Italiana S.p.A. in amministrazione straordinaria e alle altre società del medesimo gruppo in amministrazione straordinaria di altri 200 milioni oltre alla possibilità di concessione di un finanziamento oneroso di euro 100 milioni. A questo punto la domanda sorge spontanea, ma è possibile che si continui a sostenere un’azienda pubblica che è sempre stata in perdita? E voi cosa ne pensate, è davvero obbligatorio avere una compagnia aerea di bandiera? Visto che appare sotto gli occhi di tutti l’incapacità della gestione della stessa, non sarebbe il caso di privatizzarla in modo che tutte queste risorse sprecate possano essere utilizzate diversamente? Fateci sapere cosa ne pensate!

  • Catalunya, riprendono dialoghi su indipendenza

    Il neo Presidente della Generalitat Pere Aragones vuol procedere celermente Pere Aragonès, neo Presidente ad interim della Generalitat de Catalunya, appartenente ad ERC - Esquerra Republicana de Catalunya, è pronto, a quanto si apprende dalle fonti di stampa a livello internazionale, a riprendere le trattative con il Governo centrale spagnolo per l'autodeterminazione della Catalogna dalla Spagna. Il Presidente del governo spagnolo, Pedro Sánchez, del PSOE, Partito socialista operaio spagnolo, sarebbe concorde con il Presidente catalano nella volontà di riaprire le trattative, rilanciando il dialogo sulla Catalogna. Secondo fonti del nuovo Governo catalano, sono già in corso i lavori affinché il tavolo di dialogo con il Governo centrale possa incontrarsi nel mese di giugno. Prima di allora, dovrà tuttavia essere istituita un'apposita commissione parlamentare. Gli indipendentisti nel frattempo hanno attivato un tavolo interno di confronto e dibattito, denominato "Accordo nazionale di autodeterminazione e amnistia" e, in ogni caso, paiono fortemente intenzionati a procedere celermente nella direzione attuativa del piano. A differenza degli scenari precedenti degli ultimi anni tuttavia, pare che, anche da parte del Governo centrale spagnolo, ci sia la disponibilità a riprendere concretamente il tavolo del dialogo. Stando alle fonti della Presidenza del Governo spagnolo il dialogo andrà riaperto "il prima possibile"; tuttavia ad ora non trapelano indiscrezioni più precise relative alle possibili date di confronto tra Spagna e Catalunya. Con tutte le precauzioni dovute ai disaccordi accumulati con gli ultimi governi della Generalitat, l'Esecutivo di Pedro Sánchez ha la chiara volontà di continuare con il suo impegno diretto a ridurre la tensione sulla Catalogna e smorza i toni delle vicissitudini ultime relative l'interruzione dei lavori dei tavoli di confronto adducendo la giustificazione dello scoppio della pandemia da Covid19. Continueremo a monitorare da vicino l'evolversi della situazione catalana e vi terremo aggiornati. Fonti: El País, UltimoraPolitics.

  • Lombardia, la nostra casa

    Perché abbiamo deciso di intraprendere questo percorso Secondo alcuni “Lombardia” è un termine unicamente amministrativo, tutt’al più istituzionale. Altri ritengono si tratti soltanto un’area geografica delimitata da linee irregolari tracciate su una cartina. Per qualcuno invece è un enorme bancomat da cui attingere risorse. Per noi la Lombardia è qualcosa di diverso, una parola dal valore più alto, che affonda le sue radici in una storia importante, che andrebbe riscoperta. Non una Regione come le altre ma bensì una realtà unica nel panorama italiano ed europeo. Un luogo del cuore, il posto delle origini, ma soprattutto la nostra casa, quella del nostro futuro. Una terra splendida con un’identità definita, magari non completamente omogenea, ma di certo con un comune denominatore che ne delimita in modo chiaro i confini. Forti di questa convinzione e con spirito propositivo abbiamo deciso di andare all’avventura, armati di (tanta) buona volontà e passione per il nostro meraviglioso territorio. Ed è con queste premesse che è nata “29 Maggio”. Siamo un’associazione culturale, indipendente, apartitica e aconfessionale, che ha lo scopo di diffondere e valorizzare lo spirito lombardo, costituito anzitutto dall’irriducibile etica del lavoro della nostra gente. L’associazione 29 Maggio si pone come una realtà moderna, aperta e inclusiva, orientata prima di tutto al futuro e all’Europa. I valori che ci muovono sono quelli dell’autonomia, del federalismo e della riscoperta delle identità locali. Abbiamo la piena consapevolezza di come sia impossibile, nel mondo moderno, prescindere da una tutela reale delle proprie radici e crediamo che ciò possa conciliarsi perfettamente con le sfide del futuro. Questo perché la Lombardia, da sempre, è terra di grandi innovatori: intraprendenza e spirito di adattamento sono tra i tratti distintivi, marchiati a fuoco nella storia dei lombardi. Il nome 29 Maggio è un richiamo esplicito alla Festa della Lombardia, che cade ogni anno in questo giorno, a memoria della storica Battaglia di Legnano del 1176. Una data simbolo, quella di un evento storico dove liberi Comuni hanno dimostrato che con l’unione, sommata al giusto ideale, è possibile sconfiggere anche un avversario che sembra invincibile.

  • I 96 diavoli del Duomo

    La leggenda dei gargouille di Milano Hanno di volta in volta le sembianze di serpenti, draghi, mostri dall’aspetto terrificante o creature demoniache dalle sembianze animalesche: sono le gargouille che decorano il Duomo di Milano. In italiano sono semplicemente “doccioni” o, con la meno nota onomatopea, sono “gargolla”. La loro funzione è semplicemente quella di ricoprire la parte finale dei canali di scolo che consentono il deflusso dell’acqua piovana dalle guglie. Iniziarono a diffondersi in Europa a partire dal X secolo e raggiunsero il loro apice di diffusione nel XIII secolo e, verso la fine del secolo, si cominciò a fare uso di caricature e figure grottesche. Nel corso del tempo divennero sempre più elaborati: inizialmente veniva scolpito solo il busto dell'animale o della creatura fantastica, in seguito si raffigurò l'animale intero, spesso avvinghiato con gli artigli all'edificio. Frequentemente, i doccioni rappresentavano draghi o leoni e di solito l'acqua scorreva lungo la schiena o all'interno della figura per defluire poi dalla bocca. Celeberrimi, di certo, sono quelli della Cattedrale di Notre Dame a Parigi. Tuttavia, pochi sanno che anche il nostro Duomo di Milano ne è ricchissimo: ce ne sono ben 96 che lo ornano. E ancor meno conoscono la leggenda che li riguarda. Pare che la loro comparsa sul Duomo si debba a Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano alla fine del Trecento. Egli, narra la leggenda, una notte sognò il Diavolo che lo minacciava: “Fai riempire la Cattedrale di Milano di simboli del Male oppure mi porterò via la tua anima”. E il Duca, terrorizzato, così fece. Da allora ad oggi sono state moltissime le aggiunte sul Duomo di svariati simboli e raffigurazioni. Alcuni rivestono ancora oggi il loro ruolo originale e coprono le gronde, altri sono semplicemente stati apposti a scopo decorativo.

  • Regione Lombardia: l'alba dell'Istituzione

    Prima elezione del Consiglio Regionale e elezione del primo Presidente Regione Lombardia nasce il 7 e 8 giugno 1970, i giorni in cui i cittadini vengono chiamati alle urne per le prime elezioni regionali, in adempimento a quanto previsto dalla Costituzione italiana del 1948. Nasce in un quadro politico-istituzionale che risente del ’68 e del successivo autunno sindacale, fra la voglia di partecipazione (della gente) e scetticismo se non proprio ostracismo (di alcune forze politiche): la percentuale dei votanti, 95,4%, inimmaginabile ai giorni nostri, dimostra che la spinta riformatrice fa presa e apre nuovi orizzonti per il futuro. La prima legislatura ha formalmente inizio il 6 luglio 1970, quando il Consiglio regionale, eletto un mese prima, tiene la prima seduta. Lo compongono – allora come oggi – 80 consiglieri, appartenenti alla Democrazia Cristiana (DC, 36), Partito Comunista (PCI, 19), Partito Socialista (PSI, 9), Partito Socialista Unitario (PSU, 5), Movimento Sociale Italiano (MSI, 3), Partito Repubblicano (PRI, 3), Partito Liberale (PLI, 3) e Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP, 2). È una “seduta fiume” in un “clima di incertezza politica”, secondo i resoconti dell’epoca, che porta comunque all’elezione del primo presidente del Consiglio regionale, il democristiano Gino Colombo. Il neopresidente avverte tutti che “ci attende un lavoro imponente”. Parole profetiche, non solo per gli adempimenti immediati, ma anche per il futuro. Il lavoro imponente comporta, sul piano politico, l’elezione del primo Presidente della Regione e della sua Giunta. Così il 28 luglio successivo, il consiglio in questa carica elegge Piero Bassetti, regionalista convinto, a capo di una maggioranza formata da DC, PSI, PSU, PRI. Bassetti guida, quindi, la regione nei suoi primi passi in una situazione di provvisorietà non solo apparente. Non c’è ancora una sede istituzionale, gli uffici sono in locali in affitto alla Torre Monforte ma soprattutto è la struttura che si va faticosamente costituendo, con il trasferimento di personale da altri enti pubblici e la selezione di quello nuovo. Ma questa provvisorietà non impedisce al consiglio di assumere decisioni importanti (anche se manca ancora una legge dello stato che deleghi funzioni e compiti alle regioni): come il sì al primo bilancio della regione di 4 miliardi e 150 milioni di lire. O come l’approvazione dello Statuto – che segue un percorso proprio – e della prima legge regionale che riguarda le “norme sull’iniziativa popolare per la formazione di leggi e altri atti della regione”. Si tratta, quest’ultimo, di un provvedimento che regola le iniziative dei cittadini in relazione alla presentazione di proposte di legge popolari e di richieste di referendum. Secondo il libro degli Atti Consigliari, è il presidente Colombo, il 17 giugno 1971, ad informare l’Assemblea che la giunta regionale, il 24 maggio precedente, ha approvato il testo, poi trasmesso il 22 luglio. Nella discussione generale, il relatore Enrico De Mita (DC) evidenzia che con questo progetto di legge la Lombardia vuole dare attuazione “a uno dei titoli più importanti dello statuto, quello dedicato all’attività popolare” e aggiunge: “confidiamo di aver predisposto uno strumento di più alta democrazia”. È l’unica regione ad aver scelto questo tema per la sua prima legge, approvata il 16 settembre con 67 sì e 2 voti contrari. Il 2 ottobre successivo, dopo il via libera del commissario di governo, viene pubblicata sul BURL, il bollettino ufficiale della Regione. La legge rappresenta un segnale forte dell’attenzione rivolta ai cittadini. Ed è in vigore ancora oggi. [Articolo tratto da "50 anni di Lombardia", Agenzia ANSA ]

  • Lombardia, bancomat d’Italia

    Cos’è il residuo fiscale e perché parliamo di autonomia Autonomia e residuo fiscale. Perché questi due temi ci stanno tanto a cuore e sono così strettamente correlati? Iniziamo da una domanda banale: quante sono le regioni italiane? Venti. Bene. Di queste venti regioni, quante sono a Statuto speciale? Cinque: Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna. Prossima domanda. Cosa fa sì che queste regioni siano riconosciute “speciali” dalla Costituzione italiana? Sono regioni a cui la Costituzione italiana ha concesso, oltre alla facoltà di legiferare e organizzarsi in modo più autonomo in diversi ambiti, anche il privilegio di trattenere sul proprio territorio una quota variabile che può arrivare addirittura al 110 per cento delle tasse pagate dai rispettivi cittadini. Nello specifico, il Friuli-Venezia Giulia trattiene il 60 per cento dei tributi; la Sardegna si tiene il 70; la Valle d’Aosta e il Trentino-Alto Adige il 90; la Sicilia supera il 100 e secondo alcuni studi arriverebbe al 110 per cento. E le altre Regioni? E la nostra cara Lombardia? E qui entra in gioco il concetto di residuo fiscale. Di cosa si tratta? Il residuo fiscale è la differenza tra tutte le entrate (fiscali e di altra natura come alienazione di beni patrimoniali pubblici e riscossione di crediti) che le Pubbliche Amministrazioni (sia statali che locali) prelevano da un determinato territorio e le risorse che in quel territorio vengono spese in termini di servizi. Secondo un accreditato studio della CGIA di Mestre, il residuo fiscale della Lombardia è pari a 53,9 miliardi di euro all’anno. Detto in altri termini significa che tutti i cittadini lombardi, neonati compresi, ogni anno devolvono in “solidarietà” allo Stato circa 5.500€ a testa. Salta immediatamente agli occhi l’iniquità e l’ingiustizia che lo Stato centrale esercita nei confronti della Lombardia. Essa, infatti, è la regione italiana che in percentuale trattiene il minore gettito, a fronte di altre realtà regionali dove il residuo fiscale è addirittura in negativo, ovvero la contropartita in servizi è superiore (di gran lunga) rispetto alle tasse prodotte. A questo si aggiunge un altro dato molto significativo, ricavabile rispondendo a un paio di domande, ovvero: quanto pagano i cittadini per mantenere servizi e amministrazione pubblica in Lombardia? E ancora: quali sono le regioni che spendono meno e meglio le tasse? C’è una distanza siderale tra il governo lombardo e tutti gli altri esecutivi regionali nell’uso dei soldi dei contribuenti. Un esempio? Il costo pro capite del personale pubblico (19,8 euro in Lombardia, record nazionale di spesa minima, 177 euro in Molise, record di spesa massima, a fronte di una media nazionale di 43,9 euro). E sono proprio questi numeri che danno valore dell’autonomia, al trattenere sul proprio territorio le risorse che in esso vengono prodotte. Non siete ancora convinti? Ok. Nel giugno del 2020, per rilanciare l’economia lombarda messa in ginocchio dalla crisi pandemica da Covid19, Regione Lombardia ha stanziato 3,5 miliardi di euro da immettere sul mercato. Uno stanziamento clamoroso, senza precedenti nella storia dell’amministrazione pubblica di una regione. Purtroppo, però, questa mole di denaro ammonta a circa quindici volte meno rispetto a quanto ogni anno lo Stato si intasca. Pensate cosa potremmo fare fossimo autonomi…

  • Quando i lombardi si ribellarono allo Stato

    Storia dei Moti di Milano (e Monza), dal 6 al 9 maggio 1898 È la primavera del 1898 e il costo del pane è aumentato da 35 a 60 centesimi. Alla fine del mese di aprile si accendono le prime rivolte: in Romagna, poi in Puglia, a Firenze e in altri luoghi. A Milano il 6 di maggio agenti della polizia arrestano, nel corso di una agitazione, alcuni operai della Pirelli; verso sera, durante i tumulti davanti alla questura, due dimostranti restano sul selciato. Il giorno seguente le organizzazioni operaie dichiarano lo sciopero generale e i milanesi scendono nelle strade. Poiché i questurini non sono sufficienti, la cavalleria viene incaricata di riportare l’ordine. Ma l’ordine non torna, non c’è verso. In molti quartieri popolari vengono alzate le barricate. Nel pomeriggio del 7 maggio il Governo decreta lo stato di assedio affidando il comando della piazza al generale Fiorenzo Bava Beccaris. Altri morti si aggiungono ai primi. L’8 maggio è domenica, Milano è insorta come cinquanta anni prima contro gli austriaci, solo che stavolta nobili e borghesi stanno dall’altra parte. Il generale comandante ordina di sparare sulla folla. Col cannone ad alzo zero. Il giorno 9 la rivolta viene gradualmente sedata; nel pomeriggio i bersaglieri espugnano l’ultima barricata in largo la Foppa. Alle grida strazianti e dolenti, di una folla che pan domandava, il feroce monarchico Bava gli affamati col piombo sfamò Da "Il feroce monarchico Bava", canto popolare In quegli stessi giorni anche a Monza si registrano proteste e si conteranno, il 7 maggio, 7 morti fra i civili. Un bilancio della rivolta non c’è. Per le autorità i morti sono un centinaio e circa quattrocento i feriti; altri osservatori parlano di cifre doppie o triple. Ancora oggi i numeri della strage restano ignoti. Poco più di un mese dopo le tragiche giornate, al generale Fiorenzo Bava Beccaris viene concessa da parte di Umberto I la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia e la nomina a senatore. Un riconoscimento, ma di segno opposto, gli è tributato nelle strofe di una celebre canzone popolare: “Il feroce monarchico Bava”. Il 29 luglio 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, emigrato negli Stati Uniti d’America, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l’offesa per la decorazione conferita a Bava Beccaris.

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