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  • Autonomia, tavolo tra il Ministro Gelmini e i leghisti Salvini-Fontana-Zaia

    25 febbraio 2022 - Vertice a Roma sul progetto per l’autonomia differenziata con i presidenti di Veneto e Lombardia Luca Zaia e Attilio Fontana, il segretario federale della Lega Matteo Salvini, la ministra per le regioni Mariastella Gelmini. «Il principio rimane sempre lo stesso: siamo disponibili a ragionare però solo se si tratta di autonomia vera. Quindi, ci saranno ancora degli approfondimenti da fare nei prossimi giorni e nelle prossime settimane con la speranza che, alla fine, ci possa essere un documento che tuteli le istanze portate avanti congiuntamente dalle Regioni»: così Zaia commenta al termine l'esito dell'incontro. Una nota della Lega parla di «clima costruttivo» e anticipa che il tema sarà affrontato anche con il Presidente del Consiglio Mario Draghi. A breve, il ministro Gelmini aggiornerà anche il governatore dell'Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. fonte: Il mattino di Padova

  • CECCHETTI (LEGA): "COMPLETIAMO ITER ENTRO FINE LEGISLATURA"

    CECCHETTI (LEGA): "COMPLETIAMO ITER ENTRO FINE LEGISLATURA" 18 FEB - "Sull’autonomia non si perda altro tempo. Le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna stanno accelerando sulla ripresa del percorso istituzionale per l’autonomia differenziata. Bene che le tre Regioni si vogliamo impegnare a condividere uno schema comune di intesa da sottoporre al Governo. A questo punto non si perda altro tempo e si concluda l’iter istituzionale dell’autonomia differenziata entro la fine di questa legislatura." Lo dichiara l'on. Fabrizio Cecchetti, vice capogruppo della Lega alla Camera dei Deputati e coordinatore della Lega Lombarda - Salvini Premier.

  • AUTONOMIA, Salvini riapre il dossier. “Approvarla entro fine legislatura”

    «Ho parlato con i presidenti Zaia e Fontana di autonomia, un dossier chiesto ormai a gran voce da tutte le Regioni. Penso che possa essere giunto a buon punto, ne ho parlato con Gelmini, ne parlerò con Draghi», avendo in vista l’obiettivo di approvarla «entro la fine della legislatura» così Matteo Salvini sull’autonomia pronunciate nel corso di un intervento di martedì 8 febbraio a Radio Libertà.

  • Autonomia: Fontana, mai come ora e' l'ora di affrontare tema

    Autonomia: Fontana, mai come ora e' l'ora di affrontare tema Governatore Lombardia, ne ha parlato anche Presidente Mattarella (ANSA) - MILANO, 08 FEB - "E' giunto il momento. Credo che mai come ora la gente sia cosciente che un decentramento e una maggiore autonomia per le Regioni siano e diventerebbero la prova di un migliore funzionamento della nostra amministrazione". Lo ha detto il governatore lombardo, Attilio Fontana, a margine dei lavori d'Aula del Consiglio Regionale della Lombardia, a proposito dell'apertura fatta dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ai presidenti delle Regioni. "Di autonomia ne ha parlato in maniera esplicita durante il suo discorso - ha aggiunto il governatore -. Ha ricordato che una delle grandi riforme e' quella. Nel rispetto della centralita' del Parlamento, che nessuno vuole cancellare, credo che si debba affrontare questo tema". (ANSA).

  • Zaia: «Autonomia, un bel segnale arrivato dal presidente Mattarella»

    «Per il Veneto spero sia di buon auspicio - aggiunge Zaia - anche perché il nostro processo di Autonomia differenziata è avviato e dobbiamo assolutamente chiudere questa partita, che è in linea con la Costituzione. Il fatto che il Presidente della Repubblica, che ne è il garante, ne abbia parlato in forma molto rispettosa fa ben sperare che si possa arrivare alla fase esecutiva».

  • "San Bias el benedis la gola e el nas"

    Il 3 febbraio si ricorda San Biagio, secondo la tradizione (tutta meneghina) mangiando oggi del panettone avanzato dal giorno di Natale si previene il mal di gola. Ma chi era San Biagio e da dove nasce questa tradizione? Biagio di Sebaste, noto come San Biagio (III secolo – Sebaste, 316), è stato un vescovo cattolico e Santo armeno. Vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia è venerato come Santo dalla Chiesa cattolica (Vescovo e Martire) e dalla Chiesa ortodossa. Era un medico e venne nominato vescovo della sua città. A causa della sua fede venne imprigionato dai Romani e, rifiutando di rinnegare la fede cristiana, venne ucciso. La Leggenda. Quanto al suo potere taumaturgico sulla gola lo si deve a un episodio miracoloso. Si racconta infatti che durante una persecuzione contro i cristiani, nella quale Biagio venne processato e poi condannato a morte, una donna gli portò il figlioletto che stava soffocando per una lisca di pesce che gli si era conficcata in gola. San Biagio lo benedisse e il suo intervento fu miracoloso per il bambino che si salvò. Per questo motivo nel giorno della sua festa, cioè oggi, il sacerdote durante la celebrazione della Messa tocca la gola dei fedeli con l'imposizione di due candele incrociate. Secondo un'altra versione Biagio diede al ragazzo morente una grossa mollica di pane che scendendo in gola rimosse la lisca e lo salvò. La tradizione contadina lombarda ma specialmente Milanese e Brianzola vuole che per festeggiare San Biagio la famiglia faccia colazione con ciò che è rimasto del panettone raffermo da Natale, appositamente conservato. Si tratta di un gesto propiziatorio contro i mali della gola e il raffreddore. Basti pensare al celebre detto milanese: "San Bias el benediss la gola e el nas". In questo giorno non è difficile trovare venduti a prezzi vantaggiosi i cosiddetti panettoni di san Biagio, gli ultimi rimasti dal periodo natalizio. Curiosità. Il nome di San Biagio è legato in particolar modo alla città di Milano. Biagio era già venerato nell’antica basilica di Santa Tecla, dove nell’anno 1116 i preti decumani avevano ottenuto, con il consenso degli ordinari, che gli venisse dedicato un altare: il Santo ne divenne allora il patrono. In seguito alla demolizione della basilica, il titolo dell’altare di San Biagio fu trasportato in Duomo e attribuito, insieme a quello della natività di Maria, all’altare maggiore. San Biagio è tuttora il patrono dei canonici minori del Duomo, che sono i successori dei decumani in seguito alla riforma del clero iniziata da San Carlo nel Cinquecento. Non a caso, sul sepolcro dei canonici minori, posto nel transetto meridionale del Duomo, una lapide ricorda che vi riposano coloro che erano stati “psallentes in choro, sub tutela S. Blasii”. In onore del Santo vi è anche una sua statua posizionata su una guglia di facciata del Duomo di Milano: si trova al primo ordine del camminamento Nord della Cattedrale (verso Corso Vittorio Emanuele).

  • "Io non mi sento italiano". Il 25 gennaio 1939 nasceva Giorgio Gaber

    Con questo approfondimento vogliamo ricordare Giorgio Gaber (Gaberscik), tra i più influenti cantautori lombardi dello spettacolo e della musica del secondo dopoguerra scomparso il 1° gennaio 2003. Gager nacque a Milano il 25 gennaio 1939, secondogenito di Guido, di origini istriane e di professione impiegato, e di Carla Mazzoran. A nove anni un infortunio al braccio sinistro gli procurò una leggera paralisi alla mano. Per avviare la rieducazione motoria dell’arto venne iniziato dal fratello maggiore, Marcello, all’esercizio della chitarra, che non solo si rivelò una buona tecnica di riabilitativa ma gli aprì le porte della carriera musicale. Preso il diploma di ragioniere presso l’Istituto commerciale Carlo Cattaneo nel 1958, nell’autunno di quell’anno si iscrisse alla facoltà di economia e commercio dell’Università Bocconi ma non completò mai gli studi. In realtà la sua ‘scuola’ si svolse nei sobborghi di Milano, nei bar e nelle sale da ballo, dove incontrò un'umanità minore e quegli eroi di periferia che entrarono a far parte di alcune delle sue canzoni più conosciute, al punto che il critico Enzo Golino lo battezzò «l'Adorno del Giambellino». All’inizio i modelli di riferimento di Gaber furono i chitarristi jazz americani Barney Kessel, Tal Farlow, Billy Bauer, o italiani, come Franco Cerri. Dopo l’esordio al Festival jazz del 1954, la sua carriera proseguì nella formazione musicale di Ghigo Agosti, poi, nel 1956, entrò a far parte dei Rock Boys, gruppo fondato da Adriano Celentano, nel quale suonava come pianista Enzo Jannacci. Nel 1958, su sollecitazione del musicologo Roberto Leydi, fondò i Rocky Mountains Ol’ Times Stompers, che oltre a lui comprendevano Gianfranco Reverberi alla chitarra, Luigi Tenco e Paolo Tomelleri al sax, Enzo Jannacci al pianoforte. Con Tenco iniziò un rapporto di amicizia e un sodalizio artistico che li condusse a firmare più di una canzone. Alla fine degli anni Cinquanta venne notato da Nanni Ricordi, direttore artistico dell'omonima casa editrice musicale per la quale registrò le sue prime canzoni da solista, a cominciare da Ciao ti dirò, scritta nel 1958 con Tenco e considerata il primo rock ’n’ roll italiano. In quelle incisioni comparì per la prima volta il suo nome d’arte, Giorgio Gaber, dopo che la casa editrice aveva cercato, cedendo alle mode americanizzanti del periodo, di lanciarlo come Rod Korda, Jimmy Nuvola e Joe Cavallo. Il successo definitivo giunse nel 1960 grazie a Non arrossire, con testo di Umberto Simonetta, autore televisivo e teatrale. Sempre con Simonetta Gaber scrisse in quegli anni alcune ballate ispirate al repertorio popolare milanese − Trani a gogò (1962), Porta Romana e Le nostre serate (1963) − ma soprattutto La ballata del Cerutti, che nel 1960 salì in vetta alle classifiche dei dischi più gettonati nei juke-box. Alle mode americane sovrapponeva l’ambiente delle osterie, al whiskey il barbera del Giambellino e dei quartieri popolari. In questo contesto le sollecitazioni commerciali e dello star system convivevano accanto alle più esclusive rappresentazioni nei jazz club. Di qui anche i generi musicali attraverso i quali Gaber giunse al successo. All’inizio degli anni Sessanta Gaber era ormai lanciato nel firmamento della canzone italiana e la sua popolarità varcava i confini di Milano. Partecipò a quattro edizioni del Festival di Sanremo. Il pubblico televisivo lo scoprì e lo apprezzò anche in rubriche musicali e spettacoli di cui era ideatore-cantante-conduttore. Nel 1965 sposò Ombretta Colli, anche lei proveniente dall’ambiente del teatro (aveva studiato al Piccolo). Per capire la vicenda di Gaber e l’originalità dei suoi testi conviene collocarlo nella storia più generale della canzone italiana, nei confronti della quale operò una vera e propria azione di rottura e di rinnovamento. Nasceva infatti, fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, il fenomeno dei cantautori, che nobilitò il testo della canzone sull'onda delle risonanze della chanson francese. Fu l’inizio della rottura con la canzone melodica, di quella tradizione cioè costruita su ritmi orecchiabili con testi che potevano essere letti come mezzi sia per allontanare e dimenticare i problemi quotidiani, sia per diffondere sentimenti di tranquillità e di rassicurazione. Sotto questo profilo la canzone svolse un ruolo primario come veicolo del desiderio di rimozione della guerra appena terminata. Nel tentativo di contrastare quella tendenza nacquero a Torino, Genova, Bologna e Milano nuove 'vie' per il rinnovamento della canzone. Jannacci e Gaber collaborarono per dare nuovo timbro e significato ai testi. A fare da sfondo comune alle tre esperienze fu la lezione degli chansonniers francesi, dei quali fu profonda l’influenza che esercitarono nel rinnovare moduli desueti e introducendo categorie e concetti fino ad allora assenti: in primo luogo quello relativo al tempo del reale. È difficile condurre a unitarietà la sterminata produzione di Gaber. Dopo un inizio di carriera nel quale alternò il rock ’n’ roll al jazz e all’intimismo neomelodico, l'impegno civile lo portò, dagli anni Settanta, a confrontarsi con i grandi temi della vita pubblica e sociale dell’Italia di fine Novecento. Gaber espresse un credo civile che gli costò in più di un'occasione l’accusa di qualunquismo. La polemica costante contro le contraffazioni e l’ipocrisia delle ideologie, e lo sguardo disincantato sulla realtà, se da una parte fecero di lui un campione di chi elevava l’etica a regola di vita, dall’altra gli attirarono le critiche dei partiti ortodossi, soprattutto della sinistra. In realtà fu frequente in Gaber la polemica contro lo Stato e le sue istituzioni. Stato, Chiesa e borghesia furono al centro della satira e della polemica di Gaber, che teorizzò la sua idea di libertà in una canzone del 1972, La libertà, il cui ritornello è divenuto quasi un inno all’anticonformismo e all’anticonvenzionalismo: «La libertà non è star sopra un albero Ⅰ non è neanche avere un’opinione Ⅰ la libertà non è uno spazio libero Ⅰ libertà è partecipazione». Con gli spettacoli degli anni Ottanta Gaber cambiò registro spostando il piano dall'analisi dei malesseri collettivi a quello più intimo dei sentimenti, questo attraverso il personaggio solista che rifletteva e comunicava i propri pensieri, il dialogo era sintetizzato all'essenziale e si ricostruiva un percorso più letterario. I suoi testi non hanno confini, spaziano nei temi più differenti, dall’amore alla politica. Il 13 aprile 2001 Gaber pubblicò un nuovo disco realizzato in studio: La mia generazione ha perso, che presentava alcune canzoni di spettacoli precedenti (Destra-Sinistra e Quando sarò capace d'amare) e alcuni inediti, di cui il più significativo era La razza in estinzione, il brano in cui compariva la frase che dà il titolo al disco. Già segnato dalla malattia, partecipò nello stesso anno al programma su RaiUno 125 milioni di caz...te, di e con Adriano Celentano, insieme ad Antonio Albanese, Fo, Jannacci: i cinque cantarono insieme Ho visto un re. Iniziò in contemporanea la lavorazione di un nuovo disco, Io non mi sento italiano, poi pubblicato postumo. Da tempo malato di cancro, morì il 1° gennaio 2003 nella sua casa di campagna a Montemagno, in provincia di Lucca. Il corpo riposa nel Cimitero monumentale di Milano. Fonte. Dizionario Biografico degli Italiani (2013).

  • 21 gennaio 1277 - La Battaglia de Dés

    Al ventun di gennaio – questa è la storia-, ed era una notte di freddo maledetto, al Visconti è andata incontro la vittoria, - era il milleduecentosettantasette - in piazza a Desio, dove c’è la chiesa, il dì che si festeggia sant’Agnese. Da ormai un po’ di tempo il grande Ottone, ch’era grand’arcivescovo di Milano, per togliersi lo sfizio – o fu ambizione-, voleva gabbare il Napo Torriani. Notte e giorno sognava – vera fissa - al posto della Torre la sua Biscia. E c’è riuscito, grazie al tradimento d’un Giuda Iscariota, grasso d’arrosto, un bel piantagrane dell’accidente, di nome Leonardo, di mestier prevosto. …anche se oggi qualcuno sostiene che il traditore sia un di Seregno. È entrato a Desio, ha spazzato via - dice – la brutta razza dei della Torre; squarta, sbudella – una macelleria -, in poche parole, di sangue ne corre; sia mai detto che badasse alle spese: va a fuoco e fiamme tutto il paese. In mezzo ai rottami un povero cristo sentendo alfin la tempesta passare, - ben misero! – ormai senza casa rimasto, fermo sta lì, non sa più che fare. Un sacco di botte, l’han ben malmenato, gli han rotto la schiena, poi nudo lasciato. Lui guarda gli stracci che si trova addosso, sospira e poi pensa: “E io sarei un gòss!”. Fonti: R. Comba “Storia medievale”, Cortina 2012 Nelle cronache di epoca medievale il nome della città di Desio viene soprattutto menzionato in occasione dello scontro del 1277 tra i Visconti e Torriani. Nonostante non fosse considerata al pari delle tante battaglie minori combattute nell’Italia del XIII secolo, la Battaglia di Desio risulta decisiva nel passaggio da Comune a Signoria per la città di Milano. La sua storia, narrata da Stefanardo da Vimercate nel poema latino “Liber de rebus gestis in civitate mediolani”- ed illustrata nel ciclo degli affreschi nella sala dello Zodiaco della rocca di Angera – (conservati purtroppo solo in parte) – assume particolare rilevanza rispetto all’affermazione della signoria viscontea a Milano. L’importanza dell’evento trova conferma nella dedica di un altare a Santa Agnese, nel Duomo di Milano: la liturgia onora questa Santa proprio il 21 gennaio, e fino al 1500 si mantenne la consuetudine di considerare il 21 gennaio giorno festivo per i milanesi e i comaschi, solennizzato inoltre con una messa cantata nel Duomo, al suono delle trombe, per commemorare i caduti della strage (il sacro ufficio venne celebrato fino al 1952). A Desio si combattè per le future sorti di Milano. Nel lontano 1277 la Storia fece transitare il suo corso attraverso quello che, allora, era soltanto il “Borgo di Desio”. Proprio qui, nella notte tra il 21 e il 22 gennaio, si scontrarono le nobili famiglie dei Visconti e dei Torriani per l’egemonia sulle terre di tutto il milanese. Sconfitto Napo della Torre, l’Arcivescovo Ottone Visconti, dopo sei anni di inutili tentativi, riuscì finalmente ad entrare in possesso dell’ambita città. Le cronache dell’epoca la ricordano come una delle battaglie più cruente, ma per Milano significò il passaggio dal libero Comune alla Signoria (la forma di governo che in Italia successe al Comune, dal tardo XIII secolo in poi, per porre fine alle lotte di fazione). Affresco nella rocca di Angera raffigurante la Cattaglia di Desio nella quale i Della Torre persero il predominio sul milanese in favore dei Visconti. Una tradizione locale, non attestata però da alcuna fonte storica, vuole che i vincitori Visconti fossero entrati vittoriosi nel borgo fortificato coperti dal rumore degli zoccoli del popolo di Desio schierato dalla loro parte: su questo spunto, dal 1989, ogni anno per l'inizio di giugno a Desio viene rievocato questo avvenimento tramite il "Palio degli Zoccoli", una festa folkloristica della durata di una settimana, in cui le 11 contrade cittadine si sfidano in una corsa a staffetta con gli zoccoli ai piedi compiendo per due volte il giro della Piazza della Basilica. Queste le 11 contrade di Desio: La Bassa - La Büsasca - La Dügana - La Foppa - La Piazza - I Prati - San Carlo - San Giovanni - San Giorgio - San Pietro al Dosso - Santi Pietro e Paolo

  • Il 'ritorno' dell’autonomia differenziata tra speranze e allarmi ‘sudisti’

    Non si fermano le grida d’allarme di certi giornali cd. Sudisti sul paventato ritorno dell’Autonomia differenziata, la richiesta di Lombardia e Veneto (a cui si è aggiunta l’Emilia-Romagna) espressa a gran voce con il referendum il lontano 22 ottobre 2017. Da qualche settimana è tornato a farsi sentire il Quotidiano del Sud, testata ormai nota per le proprie posizioni anti autonomiste; infatti secondo alcuni articoli del giornale ‘sudista’ (vedi 01/12/2021 e 08/12/2021) l’avanzamento della trattativa per questo (democratico e costituzionale ndr.) progetto - l’Autonomia - porterebbe a statuire l’esistenza di “un Paese di seria A e uno di serie B”. Al netto della sensazionale scoperta, che arriva con circa 160 anni di ritardo, è chiara ed evidente, agli occhi del mondo, la netta e marcata differenza socio-economica tra le diverse Regioni che compongono la Penisola. Ma è sbagliato pensare, come vuole far credere il quotidiano ‘sudista’, che con la definitiva approvazione dell’Autonomia si verranno a creare due contrapposte entità, di serie A e serie B, all’interno dello stesso Paese. Il concetto di Autonomia differenziata - ribadiamo ancora una volta - è la semplice ed elementare impostazione, che funziona alla perfezione negli Stati federali, che va a sancire che ogni territorio - Regione italiana - debba tenere le risorse che produce ovvero (a) ricevere dallo Stato centrale le competenze richieste e (b) trattenere di conseguenza le risorse per gestirle ‘in proprio’, il tutto senza togliere niente a nessuno. Risulta doveroso aggiungere il punto (c) evitare sprechi e malagestione, endemici di alcuni territori, fenomeni sempre garantiti e coperti dal gettito fiscale delle Regione del Nord, le stesse contro cui si scagliano i ‘sudisti’ nell’ormai grottesco ruolo di eterne vittime. Siamo quindi di fronte ai soliti ragli di certi giornalisti che, dal 2017, si stracciano le vesti alla parola Autonomia, progetto rimesso in pista a loro dire subdolamente con un inserimento nella prossima legge di bilancio: un vero e proprio “cavallo di Troia della finanziaria”. Bacchettando anzi le Regioni e i cittadini del Sud ‘colpevoli’, sempre a loro dire, di silenzio dopo questo nuovo affronto del Nord che li lascerebbe soli con le proprie risorse “estremamente contenute e limitate, a gestire un processo di sviluppo ritardato”. Uno sviluppo ritardato che non si riesce a riavviare dall’Unità d’Italia nonostante decenni di Governi a trazione meridionale e iper centralista, senza dimenticare uno fra i più grandi emblemi della Prima Repubblica ovvero la Cassa per il Mezzogiorno, poi AgenSud, che ha fatto del Meridione un pozzo senza fondo di finanziamenti a pioggia ottenendo come risultato un assistenzialismo esasperato e fraudolento nonché le celebri cattedrali nel deserto. Proprio loro che travestiti da fini legislatori questionano, oggi, su un passaggio ‘autonomista’ nella prossima legge di bilancio. Si mettano il cuore in pace questi giornalisti ‘sudisti’, l’Italia è uno Stato composto da Regioni che racchiudono al proprio interno dei territori e delle comunità estremamente variegate e con ben pochi tratti caratteristici in comune, sia sociali sia economici. Il processo autonomista è lungo e ostacolato dalle vecchie logiche centraliste, ma è un percorso irreversibile che evolve in modo naturale l’assetto costituzionale di uno Stato - quello italiano - ormai riconosciuto come fallimentare e incapace di premiare i virtuosi e responsabilizzare gli incapaci e i dissoluti, che non sono vittime se non di loro stessi.

  • 22 OTTOBRE 2017 – 22 OTTOBRE 2021

    Referendum autonomia: obiettivo ancora lontano Un focus sulla situazione lombarda a quattro anni dal voto La Lombardia, così come il Veneto, che nella stessa data propose il medesimo quesito referendario, arriva al quarto anniversario del referendum sull’autonomia senza aver portato a casa l’obiettivo. Ci sentiamo di aggiungere che a questo anniversario ne dovremo aggiungere altri ancora, prima di ottenere quanto auspichiamo: l’autonomia della Lombardia. La trattativa con Roma è lunga e complessa e la pandemia da Covid19 ha inciso, fornendo un alibi di ferro per mettere il tema nell’armadio, fino a data da destinarsi. Dopotutto, lo sappiamo bene, Roma non ha alcune intenzione di mollare l’osso e se due regioni hanno plebiscitariamente chiesto “l'attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, le altre 18 sono più interessate a tenersi stretta la “mucca da mungere” piuttosto che aprire il recinto e farla uscire. Dobbiamo ammetterlo: il federalismo in Italia è una battaglia di minoranza. Fin dall’unificazione del Paese, le istanze federaliste e autonomiste sono sempre minoritarie e sonoramente bocciate da una classe politica che, a conti fatti, preferiva un’amministrazione unica per tenere sotto controllo (con le buone o con le cattive) un territorio estremamente variegato ed eterogeneo, con ben pochi tratti caratteristici in comune. E così, in modo miope, prevalse un centralismo di Stato, dal marcato accento sabaudo, certamente più adatto a una conquista piuttosto che a un’unificazione. Il Paese si è vestito con tre diverse architetture istituzionali: l’Italia nacque monarchia liberale, divenne poi un regime semi-totalitario e, abbattuta la dittatura, votò per trasformarsi in repubblica. Una costante però c’è sempre stata ed è rimasta immutata nel tempo: il centralismo dello Stato. Nonostante tutto, anche dopo il 1948 e successivamente all’entrata in vigore della Costituzione, che tratteggia un’Italia che “riconosce e promuove le autonomie locali”, la sostanza nell’apparato è rimasta la stessa. È indicativo come, sebbene le Regioni fossero presenti fin dal testo originale della Carta, queste non siano state “attivate” fino al 1970, anno delle prime elezioni regionali del 7 e dell’8 giugno. Facendo un salto temporale al più recente passato, arriviamo al 2006, anno in cui si votò il Referendum sulla Devolution. Il risultato fu schiacciante e inequivocabile: in due sole regioni trionfò il SI, Lombardia e Veneto, neanche a dirlo. Nelle altre 18 regioni d’Italia i cittadini votarono contro e la Devolution morì in quelle urne. Alle resistenze politiche delle altre aree italiche, unitissime da destra a sinistra sul fronte del mantenerci il giogo al collo, si sommano quelle burocratiche: il nostro apparato statale era, è e rimane profondamente sabaudo e centralista. Un tratto ben marchiato nel DNA in tutte le articolazioni statali, difficilissimo da scardinare. Fatte queste doverose premesse, non siamo qui per descrivere un quadro autoassolutorio dei lombardi. Lombardia regione virtuosa e martire, vittima di bieco centralismo italico? Non vogliamo abbracciare questa tesi. Esempi a noi molto vicini geograficamente dimostrano come la battaglia per l’autonomia sia complessa, certamente, ma non impossibile da vincere. Si parla delle due regioni tanto invidiate per la loro autonomia: il Trentino-Alto Adige/Sud Tirol e il Friuli-Venezia Giulia. Entrambe queste realtà sono riuscite a ottenere il riconoscimento in Costituzione e non soltanto per la presenza di minoranze etniche (specie per quanto attiene il Friuli, dove il gruppo sloveno non aveva certo la consistenza numerica di quello tedesco in Alto Adige), ma anche grazie a leadership politiche di alto profilo: Alcide de Gasperi e Tiziano Tessitori su tutti. La storia quindi ci permette di trarre l’insegnamento che ancora troppi lombardi non vogliono cogliere: l’autonomia, se mai verrà ottenuta, arriverà soltanto quando tutto il popolo lombardo acquisirà finalmente l’orgoglio e la coscienza di sé stesso. 10 milioni di cittadini abitano in Lombardia. Iniziamo a chiederci quanti di questi si sentano veramente lombardi. Domandiamoci quali ragioni facciano sentire non lombardi gli altri e ancor di più cosa spinga alcuni di loro a essere contrari alle rivendicazioni autonomiste. Uniti, come popolo, la nostra battaglia, quella di chi riesce a ritagliarsi due minuti per leggere questo blog, potrà essere vinta. Quattro anni fa il SI al referendum ottenne il 96%. Votarono poco più di tre milioni di lombardi. I votanti chiamati a quell’elezione erano quasi otto milioni (7.897.056 per la precisione). La cosa importante adesso è come arrivare al cuore di questi lombardi, facendogli capire l’importanza della battaglia autonomista. Ma soprattutto facendo loro comprendere che l’interesse della Lombardia equivale all’interesse di tutti noi.

  • QUALCHE SASSOLINO DALLA SCARPA. E SEMPRE DALLA PARTE DELLA LOMBARDIA

    Gli ultimi due anni non sono stati facili per la Lombardia, intesa sia come Regione che per tutti i suoi cittadini. Un nostro grande difetto (o pregio) è che puntiamo sempre al meglio, all’utopistico, alla perfezione, senza renderci conto che siamo circondati da detrattori, sempre pronti a puntarci il dito contro per la virgola sbagliata. Ma ora qualche sassolino dalla scarpa ce lo vogliamo togliere perdio e stavolta a venirci incontro sono i pm. È notizia, infatti, di qualche giorno fa che la pubblica accusa ha detto che sulle morti (un pensiero a loro) nelle RSA lombarde e nel Pio Albergo Trivulzio NON C’è STATO ALCUN REATO. Cosa significa? Ve lo diciamo noi cosa significa, che ora è facile parlare di Covid, dei suoi effetti e delle sue conseguenze, ma quando si è abbattuta la bufera nella nostra Regione – prima nel mondo, perché non è che dalla Cina ci passassero le giuste informazioni – non è stato facile mettere in campo azioni, del tutto nuovo e inedite, che arginassero quella che poi sarebbe diventata una pandemia globale (GLOBALE!). Significa che le delibere che Regione Lombardia ha fatto (e per la quale è stata chiesta la testa dell’Assessore alla sanità Gallera e pure del Presidente Attilio Fontana poi) erano giuste. Significa che i grandi signori accusatori della Lombardia, che non vedrebbero l’ora di mettere le loro sudice mani sulla Regione, ora sono rimasti col cerino in mano, non chiedono nemmeno scusa. E questi signori sono gli stessi che inneggiavano al commissariamento della sanità lombarda, perché il commissario del governo di allora Domenico (per gli amici Mimmo) Arcuri era l’unico a essere bravo e a risolvere i problemi della pandemia. E si vede come li ha risolti: mascherine non a norma per gli operatori negli ospedali e centinaia di milioni di euro di soldi pubblici spesi male: ora – dopo le elezioni chiaramente – risulta indagato, ma senza l’effetto mediatico avuto contro il Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, che per pagare i camici ai nostri eroi avrebbe sborsato DI TASCA PROPRIA 50 mila euro. Ecco, lui indagato subito e ricoperto di fango, Mimmo indagato un anno e mezzo dopo, sottotraccia, e a elezioni passate. Per non parlare della mancata istituzione della prima zona rossa. Putiferio perché la Giunta regionale non si era mossa; poi si è saputo (in realtà lo sapevamo da subito) che solo il Governo può azzardarsi a realizzarla, non contando che senza le forze dell’ordine a farla rispettare è solo carta straccia (e ci sembra che fra le competenze della Regione non ci sia la sicurezza né tantomeno esiste un corpo di polizia regionale, forse sarebbe il caso di farci un pensierino). La conclusione di tutto questo è solo una. Troppi sono gli attacchi che la Lombardia ha subito da più parti: dal Governo, dalle altre regioni sotto Brallo di Pregola e purtroppo anche dall’interno. Abbiamo bisogno di compattezza, solidarietà reciproca tra lombardi, di difendere il regionalismo con le sue virtù – evidenti al Nord – e rilanciare l’autonomia, rivendicando più competenze allontanandole dai ministeri romani. Ma soprattutto di non stare a sentire chi tanto ha da criticare e mai è autocritico. W la Lombardia! Staff Associazione 29 Maggio - www.associazione29maggio.com PS: sappiamo che lo sapete bene, Brallo di Pregola è il comune più a sud in Lombardia.

  • Cala il sipario su Alitalia. La fine di un disastro aereo

    Con la stessa solennità che solitamente viene riservata in occasione della scomparsa di un personaggio di spicco nel giorno del funerale di Stato, a reti unificate il triste annuncio: oggi l’ultimo volo di Alitalia. La verità è che la compagnia di bandiera, passando da un’amministrazione inetta all’altra, era diventata un problema enorme, una bomba sociale e politica. Ma anche un vero e proprio malato terminale cui nessuno aveva il coraggio di staccare la spina. I tentativi di far decollare nuovamente Alitalia neanche si contano più, ormai un appuntamento fisso del palinsesto italiano, con cadenza grossomodo simile a quella dei mondiali di calcio o delle olimpiadi. Ad onor del vero il vettore ha vissuto realmente in epoche passate dei fasti di rispetto. Alitalia nasce nel 1947, in un’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale come compagnia pubblica sotto l’egida dell’IRI. Tra gli anni ’60 e gli anni ‘80, cioè tra il primo e il secondo miracolo italiano, l’azienda ha visto decuplicare il traffico aereo, con 10 milioni di passeggeri nel 1980. Alitalia stessa era uno status symbol, la terza compagnia europea, e in qualche modo seguiva la crescita del Paese, con divise firmate Laura Biagiotti e Armani a suggellarne il successo. Poi però qualcosa è cambiato, con la metà degli anni ’90 e la finta liberalizzazione. Da un lato l’avvento delle compagnie a basso costo e dall’altro una serie interminabili di occasioni mancate, principalmente per l’ostruzionismo della politica, ma soprattutto di sindacati agguerriti, che hanno sempre fatto della difesa dello status quo la loro unica preoccupazione. Tra tutti i tentativi di fusione quello che forse rappresenta il vero punto di svolta (verso il basso) risale al 1997, con l’olandese KLM che, contrariamente ad Alitalia aveva un know-how formidabile sui voli intercontinentali ma al contempo necessitava di un partner solito per le tratte di breve e media durata. E quale era il problema? Sempre il solito: l’anacronistica e ottusa difesa di un principio di superiorità. Fiumicino andava difesa senza se e senza ma, ai danni degli scali milanesi. Naturalmente, considerata la geografia economica del Paese la compagnia olandese puntava a potenziare Malpensa, ritenendo il mercato lombardo e di Milano molto più profittevole rispetto a quello della capitale. Apriti cielo! Levata di scudi e tanti saluti a KLM, costretta a pagare una penale di 250 milioni pur di non aver mai più a che fare con gli italiani. A questo tentativo ne seguirono molti altri: Airfrance per ben due volte, i cosiddetti “capitani coraggiosi”, Ethiad, timide trattative con Lufthansa risoltesi in un nulla di fatto. In questo quadretto, dagli anni 2000 è iniziata la crisi più nera: Alitalia è fondamentalmente rimasta la stessa di inizio anni ’90 (aerei compresi) mentre il mondo e il mercato aereo andavano avanti. Una serie di errori pagati a carissimo prezzo dalla collettività, con episodi anche tragicomici, come l’ipotesi di acquisizione da parte delle Ferrovie dello Stato, che non sanno far funzionare i treni, figuriamoci gli aerei. La compagnia di bandiera, un tempo vanto e lustro dell’italico orgoglio si è trasformata in alcune decadi in un gorgo oscuro per i contribuenti, un buco nero che “Gargantua” di Interstellar pare uno sciacquone, se paragonato all’oceano di denaro pubblico, circa 9 miliardi di euro, che Alitalia si è divorata nel corso degli ultimi 20 anni. Ma la vicenda in sé, a guardarla bene, assume contorni addirittura grotteschi. Quanto stupisce in realtà è stata più di tutto la pervicacia con cui esecutivi diversi hanno perseverato sulla stessa strada, infruttifera e destinata al fallimento. A grandi linee la procedura è sempre la stessa: Alitalia se ne va a gambe all’aria, il Governo mette soldi. A volte si cambiava il Cda (mai realmente il management, primo responsabile del disastro), a volte c’è stata la bad company, altre la newco e in casi eccezionali si nominava un commissario e tutto era calmierato fino all’esecutivo successivo. L’andreottiano “tirare a campare” fattosi politica aziendale. E in tutto ciò, finalmente, si è arrivati all’oggi: una flotta di rottami, biglietti cari come la rabbia, assolutamente non concorrenziali con le altre compagnie aeree, specialmente le agguerritissime low cost, un esercito di dipendenti di dottrina statale purosangue, che anno dopo anno è divenuto sproporzionato rispetto a un volume d’affari sempre più risicato. Con queste premesse le sorti della compagnia di bandiera erano segnate da un pezzo. A fronte di tutto ciò bisogna avere il coraggio, una volta tanto, di raccontare le cose come stanno, anche correndo il rischio di apparire cinici. Alitalia era morta molto tempo addietro e i ripetuti e mesti tentativi di rianimazione avevano il sapore dell’accanimento terapeutico, specie se perpetrato su un paziente ormai cadavere da circa un ventennio. E quindi, celebriamo pure le glorie del passato, suoniamo anche mille requiem, facciamo 100 speciali TV sulla storia di Alitalia, ma leviamoci dalla scatole questo fardello una volta per tutte, tutelando, per quanto possibile, i dipendenti che si troveranno a dover cercare un nuovo lavoro (al pari di quelli di tante altre aziende fallite o divorate da grandi gruppi, cui però non sono state riservate le stesse attenzioni) ma soprattutto pensando ad una politica aerea e aeroportuale capace di servire al meglio le zone del Paese dove si produce ricchezza, quelle insomma che tirano il carretto. E quindi pace all’anima tua, cara (davvero cara) Alitalia, sperando che Ita, nata dalla ceneri della compagnia di bandiera, non sia semplicemente una mini-Alitalia, destinata a rimanere sul groppone del contribuente italiano e lombardo. Sospetto che, scusate la malafede, non ci sentiamo di escludere.

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